16 settembre 2007

Il dio delle piccole cose

Ieri notte sono andata a dormire incazzata e stanca. Confidavo in un sonno ristoratore, nella notte che porta consiglio e tutte quelle balle lì. Mi sono svegliata stamattina stanca e incazzata più di ieri, avvelenata direi. In cuor mio ho mandato segretamente affanculo tutte le scuole di pensiero positivo, dalla saggezza popolare alla New Age. Come buongiorno non c'è male.

Oggi però devo lavorare, quindi non posso ricorrere alla madre di tutti i rimedi, cioè girarmi dall'altra parte e rimettermi a dormire, così cerco di non lasciarmi andare e di dare una parvenza di efficienza alla mia giornata (ci provo ogni volta, deve essere per questo che poi mi ritrovo incazzata e stanca). Perciò ingerisco una serie di integratori bio-psico-linfo-gastro-utero-coadiuvanti, benefici e naturali - operazione che lì per lì non genera altro effetto che quello di farmi sentire una tossica stile Joan Collins subito prima di scolarsi il suo primo margarita della giornata e andare a sposare l'undicesimo marito - e, per pareggiare, scendo a buttare la spazzatura, operazione che sono certa Joan Collins non fa. Devo ricaricare il cellulare, ma mi accorgo che ho lasciato su in casa il bancomat. Inanello una serie di pensieri molto molto negativi, che non sto qui a riportare.

Mi guardo intorno alla ricerca di qualcosa che sono praticamente certa di non trovare, ma, si sa, la speranza è l'ultima corda a cui ti impicchi. Bar chiusi, edicola chiusa. Nella mia città è così. La domenica mattina Bologna sembra il set di una puntata di "Ai confini della realtà", di quelle in cui il protagonista si aggira stravolto per le strade accorgendosi con terrore che la gente è immobile col braccio in aria e gli orologi sono fermi.
Tento l'ultima carta: il "bar dei vecchi" sotto al Casalone. Lo chiamo così, con un filo di spocchia che non dovrei permettermi, per via della sua frequentazione pressoché esclusiva da parte di persone di sesso maschile, quasi tutte anziane, decise a non farsi fregare dalla solitudine. Non più tardi di ieri sono passata davanti a un mega-torneo di carte all'aperto che metteva allegria solo a guardarlo.

Il bar dei vecchi è un bar di quelli veri. Non un lounge-bar, o un wine-bar. Niente happy hours, niente aperitivi trendy. E' un bar-bar. Un bar di quelli di una volta, con i clienti fissi, con le luisone che ti guardano da dietro il vetro con gli occhietti di uva passa leggermente in apprensione, fingendo indifferenza. (Per chi non ha mai letto Benni, la luisona è una brioche che a forza di stare lì ha cominciato a vivere di vita propria e, proprio perché è viva, è dotata come tutti gli esseri viventi dell'istinto di sopravvivenza, per cui riesce giorno dopo giorno a sottrarsi alle mani che si allungano sotto la teca trasparente per afferrarla.)
Fa degli orari assurdi che non ho mai capito, il bar dei vecchi: riesce a rimanere aperto più a lungo e in giornate più improbabili perfino dei negozietti dei bengalesi. Mi avvicino attraverso il prato, una bicicletta con il giornale stretto nella molla, appoggiata all'albero di fronte, mi incoraggia. E infatti è aperto, e dentro già molto animato anche se sono solo le otto e mezza di domenica mattina.
Ringrazio tra me e me il dio delle piccole cose e chiedo un caffé alla signora che praticamente vive dietro quel bancone. Mi affianca un omarello baffuto, "Fanne uno anche a me, Ivonne!". Dice proprio così, I-V-O-N-N-E, pronunciando tutte le lettere.

Finalmente so come si chiama. La signora Yvonne ha il viso sfatto di chi da tempo immemorabile comincia a lavorare quando gli altri ancora dormono, il corpo sformato abbracciato con comprensione da un vestito di maglia nero, ma è truccata con cura e ha la messa in piega a tenere alto il morale dei suoi capelli, che si intuiscono bianchi sotto la tinta biondo-Grano Dorato ("perché io valgo"). Yvonne ha la voce profonda e roca di chi ha passato una vita a sgolarsi in una stanza rumorosa e densa di fumo, e lo sguardo di un mercenario che è andato e tornato dalla Legione Straniera. Mi sono interrogata spesso su quello sguardo e sulla vita che custodisce.
Lei si volta e mette sotto alla macchina del caffé due tazzine di vetro, una per me e una per l'omarello baffuto. Poi, ancora appoggiata alla manopola, mentre il caffé diligentemente scende, con un gesto stanco gira giusto il viso verso di me e mi allarga un sorriso, lento e sincero.

Rispondo al suo sorriso, bevo, pago. Prendo da portare via anche una brioche salata, che, come al solito, non sa di niente - deve trattarsi di una forma di mimetismo, come quegli insetti che assumono il colore di un rametto o di un sasso perché non hanno nessun altro modo di difendersi dai loro predatori. Saluto la signora Yvonne e, fendendo la piccola folla canuta e vociante che discute, ride e fuma sulle seggioline di plastica all'esterno, mi avvio verso casa per cominciare la giornata, meno incazzata e meno stanca.

4 commenti:

Anonimo ha detto...

richiesta (senza produzione d'ansia): un maggior numero di questi post, e fra un annetto un bel libro che li raccolga. ehin?
gnaaa, tanto so già la risposta: no, ma-mi-mo, palle. inzomma, lamb: il mondo deve sapere!

Anonimo ha detto...

mirabile, chiaretti

Anonimo ha detto...

..steve? sei tu?
:-)

stefanone ha detto...

Ho il copyright su "Chiaretti"...
Certo che ero io :)