23 agosto 2006

Grazie a te


















Ieri all'improvviso mi è tornato in mente Paolo.
Paolo era un mio amico, siamo stati molto amici per un mese.
Era entrato nella mia vita letteralmente attraverso il monitor del computer. Era rimasto colpito da un post breve e notturno che avevo lasciato sul guestbook di un sito che allora frequentavo spesso. Il mio indirizzo email era in chiaro, così lui mi aveva scritto. Lì per lì non mi ero accorta che era una mail personale, pensavo a un commento nella mailing list, poi ho guardato meglio e ho visto che quell'indirizzo sconosciuto aveva scritto proprio a me. Stavo per lasciar perdere, poi ho risposto.. Abbiamo cominciato a scambiarci racconti sulle nostre rispettive vite, idee, desideri e abitudini, poesie che ci piacevano. Paolo era una persona dolce e intelligente, frustrata dalla miseria culturale della sua città. Era molto affettuoso, e dopo un po' aveva preso l'abitudine di svegliarmi ogni mattina con un messaggio di buongiorno, pieno di buoni auguri, di sorrisi e di sole.

Poi un giorno con una poesia mi offre un fiore, e io gli dico "Se me lo porti davvero, lo prenderò volentieri quel fiore. È raro trovare qualcuno che ti offra un fiore, in questo mondo di bruti..."

"Io te lo porto. Però allora devo prima dirti una cosa. Sto morendo. Non è una cazzata da internet. Sto morendo davvero. Non ti sto prendendo in giro. È la verità, purtroppo."

Cosa dovevo fare? Non rispondere più e fuggire da quell'abisso di angoscia? Magari era un pazzo, un maniaco. Magari era un mitomane. Oppure magari era un ragazzo gentile che stava morendo. Quand'è che si comincia a smettere di essere un essere umano? Qual è il momento esatto in cui il dolore, la malattia, la morte, la galera, la dipendenza, il fallimento ti trasformano agli occhi degli altri in qualcosa di meno che un essere umano, qualcuno su cui non vale la pena investire, a cui è meglio non legarsi, che va ignorato, cancellato mentre è ancora vivo, per conservare la propria salute mentale? Meglio non conoscere, non sapere, non soffrire inutilmente..

Ci ho pensato per un giorno, poi gli ho scritto che quel fiore io lo avrei accolto volentieri comunque, se lui se la sentiva. Aveva in programma un viaggio di lavoro a Torino - le ultime cose che gli lasciavano fare per non ucciderlo prima che morisse di suo - e mi fece sapere che si sarebbe fermato a Bologna per qualche ora. Mi è venuto a prendere fuori dall'ufficio, porgendomi una rosa triste sacrificata nel solito involucro argentato comune a tutti i fiorai. Era alto, con gli occhi azzurrissimi, e ho visto quasi subito che il suo corpo era segnato dalla malattia. Non era una cazzata, era malato davvero. Senza capelli, lo sguardo stanco, e sul dorso della mano sinistra un cerotto dall'aria ospedaliera che gli copriva i tanti buchi delle flebo. Siamo andati pian piano all'orto botanico, accanto al mio ufficio di allora, e abbiamo passato l'ora della mia pausa pranzo a chiacchierare seduti sull'erba, tra gli alberi di tutto il mondo con il loro bel nome scritto sotto. Abbiamo parlato di tutto, di noi stessi, delle nostre città, degli scrittori che amavamo, delle cose belle che ci piaceva fare, in un luogo fuori dal tempo, forse perché era il tempo l'unica cosa che non avevamo per noi. Ci siamo salutati con un po' di imbarazzo (era imbarazzo?). Lui mi ha detto che il lunedì sarebbe dovuto rientrare in ospedale per un nuovo ciclo di chemio molto pesante, necessario perché la malattia aveva ripreso a peggiorare. Non so come starò, mi ha detto, non so se riusciremo a vederci sabato prossimo. Per quella settimana ci siamo scambiati qualche telefonata, stava benino, poi molti messaggi sul cellulare, poi sabato l'ho chiamato di nuovo. Ero in macchina con alcuni colleghi, di ritorno da un fine settimana di formazione fuori Bologna, non potevo stare tanto al telefono ma volevo sentirlo, sapevo che era importante. Lo trovo che respira a fatica, non riesco a parlare ora, mi dice, sto male, ti richiamo io, non voglio che mi senti così. Ti richiamo io.

Allora gli ho mandato un messaggio. "Coraggio, io ti voglio bene."
"Anch'io ti voglio bene."

Gli ho scritto altri messaggi per circa tre giorni, per fargli sentire che gli ero vicina, per cercare di dargli un po' di forza, per dirgli di tenere duro, ma non li ha mai ricevuti. Una delle sue sorelle, che aveva trovato i nostri scambi di mail nella posta elettronica, quando il dolore glielo ha permesso, verso mercoledì, si è fatta forza e da quella stessa email mi ha scritto per farmi sapere che Paolo era già morto la sera del sabato, stroncato dalla chemio. Mi ha raccontato di lui, della loro bella famiglia, dello strazio degli ultimi tempi.
Poi mi ha detto che Paolo aveva lasciato una lettera per me tra le sue cose, e che l'aveva pregata di farmela avere. Non so dov'è, ma appena la trovo te la mando, mi ha promesso. All'inizio di ottobre è arrivata. Una lettera di addio di Paolo, morto tre mesi prima..
L'aveva scritta per salutarmi, quando aveva capito che non sarebbe più riuscito a farlo di persona. Mi raccontava una delle sue ultime giornate, tra la spiaggia di Sabaudia che amava tanto e la disperazione dell'ospedale, e di un sogno premonitore, terribile, da cui aveva capito che era finita. Mi ringraziava per il tempo che gli avevo dedicato, per quel giorno all'orto botanico, e mi invitava ad andare a trovarlo sulla spiaggia di Sabaudia, dove il suo spirito sarebbe rimasto.

Non sono ancora andata a Sabaudia. Ho rimpianto a lungo di non aver preso un permesso per passare con lui tutto il pomeriggio, quell'unica volta che ci siamo visti, di avergli dedicato solo quella stupida pausa pranzo. E, soprattutto, di non aver avuto il coraggio di abbracciarlo quando ci siamo salutati.
Paolo era di Latina, aveva 32 anni e un tumore al pancreas non operabile. È morto sabato 22 giugno 2002. Siamo stati molto amici per un mese. Ieri all'improvviso mi è tornato in mente.

1 commento:

Anonimo ha detto...

:,)
Muxu, D.