21 settembre 2008

Mario, Umberto e Vasco

In questi giorni la morte (sì, la morte, quella di cui nessuno vuole sentir raccontare, la morte di persone care o comunque vicine a noi) ci ha sfiorato più di una volta.

La settimana scorsa buttavo nel bidone del riciclo carta l'ennesima svalangata di ciarpame emersa da un repulisti esistenziale col quale sto ribaltando la casa. Per caso alzo lo sguardo e leggo sul cartellone accanto, tra gli annunci di camere per studenti settimana corta no fumatori e il volantino della biciclettata di quartiere, la mortalina del signor Mario. La famiglia annuncia la scomparsa di, i funerali si svolgeranno il, nella parrocchia del. Sono rimasta di sasso. Ecco perché. Ecco perché non lo vedevo da qualche giorno, quel vecchietto rompiscatole.
Il signor Mario era il ciappinaro del mio condominio, aveva ottant'anni e viveva al primo piano del palazzo. Stava spesso alla finestra o seduto sul muretto sotto casa a guardare il passaggio della gente e delle macchine: "Dove vai con tutta quella spesa, eh?, quanti siete in casa?" "Stai partendo, eh?, dove vai con quelle valigie?".
Io nascondevo con fatica la stizza per quelle intrusioni, il fastidio per quel tono di voce da sordo due volumi sopra, e cercavo il più possibile di svicolare: "Sì, no, buongiorno, la saluto...", pensando in cuor mio macheppalle, perché non ti fai una forchettata di cazzi tuoi??
Semplice. Non ce li aveva più i cazzi suoi da farsi, il signor Mario, da quando i condomini "bene" gli avevano detto che puliva male e lo avevano silurato, preferendogli un'agenzia di pulizie professionale. E, soprattutto, da quando a febbraio era morta sua moglie.
Ultimamente son fortunata, mi dicevo, l'ho schivato un sacco di volte, è un po' che non mi inchioda. Di fronte al cartellone, immobile per qualche secondo con gli scatoloni in mano, mi sono vergognata. Di me stessa, del fastidio esagerato che provavo per la sua curiosità, per la sua solitudine, e per aver scoperto che non c'era più solo da un cartellone.

Venerdì scorso sono uscita di casa con una nuvola nera sopra la testa e una dentro al cuore: andavo al funerale di Umberto. Umberto è stato il mio direttore per molti anni; era un esperto nel suo campo, lavorava con passione e amava trasmettere agli altri il frutto della sua esperienza. Personalmente, apprezzavo molto il fatto che fosse una persona generosa. Sapevamo, e lo sapeva anche lui, che la sua malattia non gli avrebbe lasciato scampo a lungo, ma le sue condizioni sono precipitate all'improvviso, proprio quando sembrava che stesse tollerando bene le cure.

Il funerale è alle 15.30; arrivo nel parcheggio della Certosa con qualche minuto di anticipo e, inaspettatamente, lo trovo invaso. Giovani e meno giovani con lo zainetto in spalla, auto zigzaganti alla ricerca frenetica di un parcheggio, bagarini e un sacco di bancarelle: "Bijjetti, bijjetti! Majjette, sciarpe, cappellini!"
Oddio, è vero. Stasera c'è il concerto di Vasco qui allo stadio, dall'altra parte del cimitero.
Tra i tanti, tre ragazzi che stanno rastrellando insieme la zona passano vicino al mio finestrino abbassato: "Ue', siggnorina, pijjati u' cappellino!", mi apostrofa uno.
Non ce la faccio a mandarla giù e gli ringhio: "Ma che cazzo dici, ma piantala! Volete rendervi conto di dove siete? E' il parcheggio di un cimitero questo! Qui ci sarebbe la gente che va ai funerali!"
I tre rimangono un attimo basiti, poi insorgono compatti: "Siggno', stiamo lavorando, noi! Noi stiamo qui a lavorare, non è che ci può trattare così, signora!" (come sempre, quando rompi le palle inveendo in nome della buona creanza da signorina passi istantaneamente a signora, ma vabbè).
Non sono nello stato d'animo di litigare, non sono nello stato d'animo di niente, quindi parcheggio e me ne vado senza replicare. Raggiungo i colleghi; il Pantheon del cimitero è tutto pieno, i tanti rimasti fuori stanno in piedi in silenzio, immobili e con le orecchie tese, cercando di carpire qualche parola dei discorsi di commemorazione che molti amici di Umberto pronunciano commossi. Le voci fuori arrivano deboli; in cielo ogni tanto passa un aereo, il rombo copre per qualche secondo le parole, gli sguardi si incrociano interrogativi. Ci disturba perfino il suono dei passi delle altre persone che attraversano quell'ala del cimitero, anche se fanno piano, anche se come noi hanno gli occhi lucidi e le spalle curve.
Per un po' da dentro non si riesce a sentire più niente; così, il mio pensiero finisce per concentrarsi sull'immagine del viso di Umberto, con quegli occhi chiari e acuti, con gli inconfondibili baffi candidi, che muovendosi appena sembravano fare da contrappunto alle sue parole.
Quando esco, il parcheggio del cimitero è letteralmente gremito. La gente a piedi sta sciamando verso lo stadio, ognuno con la sua maglietta di Vasco; caroselli di auto impazzite si rincorrono per guadagnarsi gli ultimi posti, il tempo stringe: "Scusa, stai andando via??" Non ho ancora varcato il cancello e già mi inseguono due o tre macchine. Certo, certo che vado via.
"Bijjetti, bijjetti! Majjette, sciarpe, cappellini! Majjette!"
Risalgo in macchina, mi allontano da quello scenario surreale con un gomitolo nello stomaco e sulla strada del ritorno continuo a rimuginare.
Fino a che punto e in quali termini è valida l'etica del lavoro? Il fatto che stai lavorando ti dà il diritto di vendere magliette di Vasco urlando fuori da un cimitero? Ma quei ragazzi, con quelle facce cotte dal sole e quell'accento campano, che cosa potevano sapere del posto in cui erano e del nostro dolore? Quante volte anche noi passiamo accanto senza accorgencene alla sofferenza, che di sicuro non sta solo nei posti con la scritta OSPEDALE o CIMITERO?
E, soprattutto, da che pulpito stavo giudicando quei ragazzi proprio io, che nella mia durezza d'animo avevo sempre schifato anche i pochi convenevoli con il vecchietto vedovo e solo del primo piano?

Quando finalmente sono quasi a casa, le nuvole si sono diradate ed è uscito un solicello timido e allegro, anche se la luce in cielo è ancora da temporale. Al semaforo, i clacson strombazzano dietro l'auto di una signora che, spiazzata dal giallo lampeggiante scattato dopo il rosso, rimane ferma e non sa più cosa fare.

Ciao, Umberto. Nessuno ti dimenticherà, anche nel frastuono dei nostri giorni.

1 commento:

Anonimo ha detto...

ahahah, ariècchime! siccome sono una brutta persona, per salutarti (dopo un secolo) scelgo apposta il post più triste, e non so esimermi dal defecarvi il mio bel commentino, in forma di domanda:
il sig. mario a te che cosa dava?
ok, tu niente a lui, a parte il delizioso spettacolo d'una biondina trafelata; ma lui a te?
non esiste psicologia (né forse sociologia - l'etica no, quella c'è sempre): esistono solo scambi energetici.
lo dico non per denigrare la memoria d'uno sconosciuto (in questi giorni temo di finir come lui, in rabbiosa solitudine), ma per tentare di sollevarti da questo senso di colpa onnipervasivo. trai le tue conclusioni (anche nessuna).
mi dispiace per il tuo amico umberto.
sempre muchisimos besos!